Monte Bianco
Cresta dell'Innominata

9 agosto 2005 - Guido e Lorenzo

 
 

Ho appena finito di leggere “Il Pilastro Rosso di Brouillard”, uno dei racconti di Walter Bonatti in “Le mie montagne”. Ripercorrendo queste venticinque pagine non posso fare a meno di rivivere i momenti che esattamente una settimana fa mi hanno portato in cima al Monte Bianco per la cresta dell’Innominata, insieme all’amico Guido. Gli stessi luoghi infatti si attraversano durante l’avvicinamento e mentre Bonatti e Oggioni si sono diretti a sinistra verso il possente pilone, noi siamo andati a destra verso il Col Eccles, a cavallo tra i versanti Brouillard e Freney. Le nostre strade si riuniscono più in alto, sulla cresta del Brouillard, luogo dove a quanto pare è facile che tiri vento. Bonatti e Oggioni hanno percorso il tratto finale in 5 ore sotto i fulmini e la tormenta, noi in meno di due ore inondati da un sole fantastico. E nonostante questo è stato un tratto dove abbiamo raggiunto i nostri limiti e quindi mi chiedo cosa avessero quei due nel corpo e nella testa nei primi di luglio del ’59. Ma riprendiamo gli eventi (i nostri) dal loro inizio…

Era da qualche anno che ipotizzavo un’ascensione al Bianco, montagna su cui non ero mai stato e che sognavo di salire da una delle grandi classiche del versante Est. Già l’anno scorso avevamo trascorso una settimana in Valle d’Aosta rinunciando al progetto per le condizioni meteorologiche avverse. L’Innominata era rimasta lì, nella mappa mentale delle vie da fare, in attesa di una situazione favorevole. L’occasione si presenta nella prima settimana di agosto: dopo un periodo di brutto tempo, l’anticiclone delle Azzorre si riaffaccia sul Mediterraneo e affonda un promontorio proprio sulla zona del Bianco. È il momento di andare!

Con Guido mi ero sentito qualche settimana prima: durante una grigliata a casa mia, complice anche una serie di bicchieri di buon rosso, si erano messe le basi per una salita insieme. Considerato che nel corso degli anni avevamo fatto il Tacul per il couloir du Diable e il Maudit per la cresta Kuffner, la cresta dell’Innominata era perfetta per completare il nostro “trittico” sui Trois Monts. Il tracciato di questa via non ha forse l’eleganza di altre nobili creste, come la vicina Peuterey, ma ciò che mi affascinava era l’ambiente circostante: volevo infilarmi tra i piloni di Freney e Brouillard, vederli da vicino nel loro incendiarsi mattutino, osservare l’orografia dei rispettivi ghiacciai, il tutto percorrendo una via classica, che sfrutta astutamente i punti di debolezza della parete. In discesa, spinti dalle stesse motivazioni, avremmo evitato le comitive del Refuge du Gouter per scendere al rifugio Gonella attraverso le aeree creste di Bionassay ed il pittoresco e selvaggio Ghiacciaio del Dome: in questo modo lo scendere a valle si sarebbe trasformato in una continua scoperta.

Con queste premesse ci ritroviamo agli Chalet du Freney il pomeriggio del 7 agosto e dopo un’accurata selezione del materiale da portare ci dirigiamo verso il rifugio Monzino. Il percorso del rifugio lo conosco molto bene, visto che ho passato in Valle d’Aosta molte estati con la mia famiglia a collezionare rifugi. Saranno passati più di dieci anni dall’ultima volta che sono salito per fare una via di roccia all’Aiguille Croux, un picco granitico sullo spartiacque Freney-Brouillard che oggi è costellato di vie moderne. Guido sale veloce come suo solito e ci ritroviamo al rifugio in un paio d’ore. Neanche il tempo di sistemarci che sul retro dell’imponente rifugio incontriamo il mitico Benigno Balatti. È in compagnia di due forti alpiniste lecchesi e domani partiranno per la cresta di Peuterey. Come sempre al “Ben” non manca la parola e così inizia ad ironizzare sul fatto che è la sua prima salita con due donne. Inizia una lunga chiaccherata di alpinismo di ieri e oggi che si protrae anche durante la cena. Il Ben ci fa esaltare raccontandoci alcuni aneddoti di una sua ripetizione solitaria alla via Major, realizzata in tempi in cui ai bivacchi Eccles o al rifugio Ghiglione potevi trovare quaranta persone a pernottare. Oggi invece al Monzino siamo veramente quattro gatti, considerato che abbiamo davanti tre giorni di bel tempo assicurato…

Passiamo una notte tranquilla e all’alba siamo fuori dal rifugio. Il cielo è terso e fa molto freddo. Rimane solo un cappuccio di nebbia sul Monte Bianco, che da ieri non si è ancora fatto vedere. Questo alone di mistero durerà pochissimo, perché all’arrivo del sole la nebbia si dirada e il versante Brouillard ci appare improvvisamente in tutto il suo splendore. Risaliamo la morena sopra il rifugio e raggiungiamo velocemente il ghiacciaio del Brouillard, dove ci leghiamo ed iniziamo a salire seguendo alcune tracce esistenti, ma ricoperte di neve fresca. I racconti di Bonatti su questo ramo di ghiacciaio sono spaventosi, anche perché lui e Oggioni erano stati costretti ad una ritirata sotto la nevicata e nella nebbia durante il primo tentativo al Pilastro Rosso: “Mille crepacci mascherati da fragili ponti di neve sono pronti ad inghiottire chi vi posa il piede” . Noi siamo decisamente fortunati: il ghiacciaio è in ottime condizioni e oltretutto già tracciato. In breve siamo al Col du Freney, dove facciamo una sosta per riscaldarci al sole e scattare foto.

Lo scenario circostante è straordinario: l’Aiguille Noire, che ieri ci sovrastava con la sua successione di torri, ora è all’incirca alla nostra altezza, mentre domani risulterà molto più bassa di noi. I ghiacciai sono molto tormentati, in particolare il Freney sul quale notiamo anche il deposito del crollo di un seracco di enormi dimensioni, che ha spazzato il bacino sottostante fino all’altezza del Colle dell’Innominata. Dall’altro lato spiccano i rossi pilastri del Brouillard, primo tra tutti quello di Bonatti e Oggioni. Tutto l’ambiente è coperto da uno strato di circa quindici centimetri di soffice neve fresca che dona all’insieme una purezza e un fascino particolari. Dal colle in breve siamo ai bivacchi Eccles, in posizione magnifica, dove passeremo tutto il pomeriggio a riposarci, cucinare ed ispezionare la prima parte del tracciato che porta al Col Eccles. Abbiamo impiegato poco più di quattro ore dal rifugio ai bivacchi.
Dopo di noi arrivano altre cordate e alla fine saremo in dieci nei due bivacchi (da nove e quattro posti). Di questi solo una coppia di altoatesini farà l’Innominata con noi. Degli altri alcuni sono diretti alla Blanche, altri al pilone centrale. Alle nove di sera siamo tutti sotto coperta…

Ci alziamo il giorno dopo alle tre, il meteo è sempre perfetto come da previsioni. Stanotte sono uscito alla “toilette” e ho visto una stellata incredibile (non c’è luna in questi giorni), ma la cosa che mi ha colpito è stato vedere il profilo notturno della cresta integrale di Peuterey retroilluminata dai bagliori provenienti da Courmayeur. Alle quattro siamo fuori dal bivacco e, calzati i ramponi, partiamo muniti di pila frontale. Percorriamo velocemente il tratto già fatto ieri fino ad un palo di legno sulla cresta, dove alcuni ometti indicano un traverso a destra in leggera discesa. Questo tratto è molto esposto, quindi ci leghiamo e procediamo con due tiri di corda non facili al buio. Un ultimo traverso difficile e Guido si trova sul canale nevoso che dovrebbe portarci sulla cresta del Pic Eccles, poco lontano dall’omonimo colle. In realtà il canale è in ghiaccio vivo con terriccio e Guido non è molto a suo agio, pianta una vite e si ferma. Valutiamo la situazione, il canale non ci piace per nulla e non siamo tranquilli a salirlo con un solo attrezzo. Inoltre il tratto di arrampicata fatto ci sembra un po’ troppo difficile rispetto alla relazione del Buscaini, quindi temiamo di aver sbagliato strada. Decidiamo di tornare sui nostri passi e di percorrere il filo di cresta del Pic Eccles.

Una volta ritornati al palo di legno ci accorgiamo che sono le sei: abbiamo praticamente buttato via due ore. Sulla cresta le cose vanno meglio e arrampichiamo velocemente senza ramponi su ottimo granito con tracce di passaggio. In un tratto più difficile ci sono due chiodi, che nessuno evita di tirare… (15m, IV+). Raggiunto il Pic Eccles proseguiamo orizzontalmente, quindi con una doppia di 20m scendiamo al Col Eccles. Da qui la vista sul versante Freney e sul Colle di Peuterey è veramente grandiosa.
Ci confrontiamo sulla situazione: sono le otto e siamo arrivati solamente all’attacco, la neve fresca crea un po’ di problemi, perché ci obbliga a mettere e togliere i ramponi. Se continuassimo con questi ritmi saremmo molto in ritardo, ma in realtà abbiamo perso due ore senza guadagnare terreno. Inoltre il tempo è magnifico e stabile, quindi anche se uscissimo in vetta molto tardi non dovremmo avere troppi problemi. Decidiamo quindi di proseguire con gli altoatesini, che sono appena davanti a noi.

Saliamo la cresta del primo risalto con difficoltà di III grado, ma con la neve fresca, che rende il tutto più delicato. A metà risalto c’è un tiro in diedro-camino con un finale molto verticale e faticoso (IV). Sarà la quota, sarà lo zaino pesante, ma riesco a malapena a salire in libera ed esco al terrazzino con il cuore che pulsa impazzito. Guido mi raggiunge faticando molto e, anche se da secondo, deve appendersi alla corda più volte. Sembra incredibile che un passaggio di IV ci possa dare del filo da torcere, visto che arrampichiamo regolarmente sul VI anche su vie di montagna: sarà questo il famoso IV stile primo novecento? Proseguiamo su belle fessure granitiche fino a raggiungere la sommità del risalto, dove ci troviamo davanti una cresta nevosa affilata e orlata di cornici, che superiamo con delicati passaggi. La fatica si fa già sentire e la via sopra di noi sembra senza fine. Il tratto successivo diventa più misto: si alternano tratti di rocce innevate a goulotte di ghiaccio rinserrate nel granito fino ad uscire nei pressi del canale nevoso a metà via, che attraversiamo per portarci su una costola rocciosa coperta di neve. In questo punto superiamo gli altoatesini, che si prendono una pausa e ci mandano avanti a “battere”. La progressione è molto strana: avanzo delicatamente sulla neve soffice che ricopre le rocce sottostanti in maniera omogenea e regolare senza avere modo di capire cosa c’è sotto. I ramponi vanno quindi a sondare alla ricerca di un appoggio sicuro: a volte percepisco il ghiaccio duro, altre volte rocce levigate dove il piede scivola e sono costretto quindi a riprovare a destra e sinistra. Alcune volte il rampone trova un gradino roccioso cioè un appoggio ideale per il piede: quando questo accade penso di avere degli amici nascosti nella neve e che mi guidano verso l’alto. Questo gioco dura per molti tiri di corda e solo per brevi tratti riusciamo a procedere di conserva, ma sempre piazzando delle ottime protezioni su solidi spuntoni o su sassi incastrati utilizzando tutti i cordini che abbiamo portato. Anche i friends sono molto utili, anche se dei tre che abbiamo portato, uno è rimasto incastrato sulla cresta del Pic Eccles…

Ci ritroviamo sotto la rossa parete del terzo risalto, che va evitata a sinistra per una ripida rampa nevosa. Qui il gioco prima descritto si fa più arduo perché il terreno si impenna e mi trovo su un tratto dove la neve nasconde ghiaccio vivo e rocce molto levigate. Nel punto più critico riesco a piazzare una precaria vite da ghiaccio, poi con delicatezza vado ad afferrare le sicure rocce affioranti: raggiungere uno di questi roccioni granitici è un po’ come ormeggiare una barca in balia del vento. Terminata la rampa usciamo sul crestone del Brouillard, che dovrebbe portarci fuori velocemente, almeno così pensiamo e speriamo. Siamo infatti molto stanchi e il tempo passa: non abbiamo mai voluto guardare l’orologio fino a questo punto e siamo abbastanza contenti che siano sono le due del pomeriggio. Si avverte comunque una certa stanchezza morale, quell’ansia di uscire dalle difficoltà che si cela dietro il respiro affannoso è un segnale evidente che abbiamo speso molto in termini di concentrazione. Ogni volta che si scavalca un salto che ostruisce la visuale si pensa ottimisticamente: “Da lì siamo fuori”. Invece ad ogni ostacolo ne segue un altro di diverso tipo e non ci resta che andare avanti a testa bassa: traverso a destra, placca, traverso a sinistra a riprendere il filo, muro compatto di granito stupendo, intaglio delicato con cornici, parete nevosa a cinquanta gradi, se non altro non c’è da annoiarsi.

Finalmente esco dalle ultime rocce affioranti e mi ritrovo su una crestina affilata che porta diritto alla cresta del Brouillard. Questa estetica piega della montagna è visibile anche dalla Val Veny. La vista delle rocce della cresta del Brouillard a breve distanza mi carica e decido che non mi fermerò finché non le avrò raggiunte: procediamo di conserva per questi cento metri su uno strato di neve ormai marciotta che poggia su ghiaccio vivo. Il piede destro è in ombra e sul versante Freney, il sinistro al sole sul versante Brouillard. Un passo dopo l’altro senza guardare in alto a dove si deve arrivare e ogni tanto una fermata per respirare più a fondo: è la tattica migliore e finalmente usciamo dalla parete. Improvvisamente siamo esposti ad un fortissimo vento da Ovest: la cosa ci pare incredibile perché è da più di dodici ore che ci muoviamo nella più assoluta calma di vento. I due versanti della montagna sono proprio due mondi diversi.
La nostra via si innesta ora sulla cresta del Brouillard e le difficoltà tecniche sono praticamente terminate, ma c’è ancora tanta strada da percorrere e siamo a 4650 metri. Percorro il primo tratto effettuando ancora un tiro di corda da cinquanta metri: dal gendarme dove siamo usciti devo scendere arrampicando a un colletto e risalire su un analogo gendarme dalla parte opposta, poco più alto del suo gemello. Sosto su spuntone e mi appresto a recuperare Guido. Mi giro e assisto ad uno spettacolo incredibile: il vento ha sollevato la corda al punto da sfilare una protezione che ho piazzato, un cordone su spuntone proprio all’intaglio. La corda che ci collega viene quindi proiettata verso Est come una vela gonfia, un perfetto arco di cerchio lungo quaranta metri la cui estremità è sospesa sugli abissi del Freney. Cala di colpo il vento ed ecco che la corda si deposita sulle rocce della cresta, riparte una raffica e si riproduce l’incantesimo. Mentre sono ammaliato dallo spettacolo Guido mi raggiunge.

Ci leghiamo per procedere di conserva a una distanza di quindici metri. Avanziamo sulla cresta.
Ci attende un altro incantesimo.
È un attimo: un calo di tensione, una raffica di vento e Guido inizia la sua scivolata a destra. Io non lo vedo perché sono davanti, ma sento le sue urla provvidenziali: “Occhio! Occhio!”. Non so da quale parte Guido sia caduto, passa una frazione di secondo in cui non c’è tempo né di pensare né di voltarsi e decido istintivamente di portarmi a sinistra sul versante Miage, meno ripido. Sono due o tre passi veloci che effettuo strisciando per tenere basso il nodo che ho all’imbrago e creare attrito. Avverto la tensione della corda che aumenta fino a stabilizzarsi, sono freddo e calmo. Adesso Guido risale e vediamo come è messo, resto immobile finché sento la corda allentarsi e lo sento parlare, poi finalmente lo vedo. Stava precipitando per il ripidissimo versante Freney e aveva già fatto 7-8 metri quando la corda lo ha trattenuto. Gli dico che sono sceso dall’altra parte per fermare la caduta e lui con sguardo stralunato mi risponde: “Mi hai salvato la vita”. Qualche giorno più tardi ci rideremo sopra e Guido confesserà di “aver visto la Madonna e qualche santo importante” mentre io a casa ritroverò i segni lasciati dagli spigoli rocciosi sulla corda, ma al momento siamo abbastanza scossi e l’unica cosa che ci interessa è che Guido ha solamente una coscia che gli fa male, una botta, niente di serio. Mi chiede di tenerlo d’occhio, non si sente tranquillo.

Procediamo con la massima cautela anche se il terreno è sempre più facile. Percorriamo un ultimo tratto di cresta rocciosa e vari pendii nevosi a pochi metri dalle enormi cornici che circondano la vetta del Monte Bianco di Courmayeur. Il vento sempre molto forte e la stanchezza ci ostacolano nella progressione tanto che avanziamo un po’ come due ubriachi di montagna. Mentre superiamo i risalti rocciosi della Tourette mi rendo conto di aver perso un po’ di lucidità... sono stanchissimo e ho troppa voglia di uscire in vetta, il ricordo che ho di questo tratto è come una serie di istantanee che si susseguono in maniera disordinata: il Bianco di Courmayeur, i pendii ghiacciati e scintillanti del versante Miage, la piatta depressione del Col Major, i seracchi della Brenva visti dall’alto, Guido che cade e io che precipito con lui giù dal Freney, immagine che devo scacciare dai miei pensieri un paio di volte.

Finalmente dopo un'ultima rampa usciamo sulla piatta e ampia sommità. Sono le 18:24, siamo completamente soli su questa cima fantastica, spazzata dal forte vento e illuminata dalla luce intensa della sera. Allargo le braccia per farmi investire dal vento e assaporare ancor di più questo indimenticabile momento. Scattiamo un paio di foto, poi iniziamo a scendere sull’autostrada della via normale, comoda e regolare è proprio quello che ci voleva. Ci porterà alla Vallot, dove pernotteremo, e quindi al Rifugio Gonella per la normale italiana. Dopo i primi cento metri di discesa inizio veramente a rilassarmi e provo una gioia immensa. Sono felice di questi giorni, felice di trovarmi qui, in pace con me stesso. È passata una settimana e questa sensazione non mi ha ancora abbandonato.

LorenzO